Il “New Deal” italiano degli Anni Ottanta
La spedizione militare in Libano
1982-1984
Considerazioni sui successi e le difficoltà dell’operazione -
Il contributo e gli obiettivi della Marina
di Lelio Lagorio
Sono passati venti anni dalla spedizione italiana nel Libano.
Lelio Lagorio che come ministro della Difesa promosse e
organizzò quella spedizione militare ricorda la vicenda in
questo scritto che la “Rivista Marittima” è lieta di pubblicare
La spedizione militare in Libano mise in luce nei primissimi
Anni Ottanta un nuovo modo di concepire il ruolo dell’Italia
negli affari internazionali. Si parlò di “New Deal”. Quel “nuovo
corso” della nostra politica estera e militare era cominciato un
paio d’anni prima con la scelta di schierare in Sicilia
centododici rampe di missili nucleari “Cruise”. Era stata quella
decisione a catapultare il nostro Paese alla ribalta mondiale
nella fase più acuta della sfida epocale fra Est e Ovest.
Nell’estate 1982 la spedizione militare in Libano fu la conferma
dell’elevato rango internazionale allora raggiunto dal nostro
Paese.
Motivazione
delle due spedizioni
C’era stato un
precedente: la missione di una forza multinazionale,
fuori dall’ONU, nel Sinai e nel Mar Rosso per garantire gli
accordi di pace fra Israele ed Egitto stipulati a Camp David. A
Camp David nel marzo 1979 si era stabilito che nella primavera
del 1982 gli israeliani avrebbero sgombrato il Sinai. Ma la cosa
non sembrava pacifica. Il presidente Sadat era stato assassinato
(ottobre 1981) e i nuovi capi dell’Egitto avevano chiesto anche
all’Italia di intervenire per calmare la situazione. Fu così
che, sorprendendo molti osservatori internazionali, il 30 ottobre 1981
il Consiglio dei Ministri a Roma decise che l’Italia avrebbe
agito militarmente in Medio Oriente con chi ci stava. Ci furono
incomprensioni in Europa e alte proteste della opposizione
parlamentare in Italia, anche con accuse di incostituzionalità.
Arafat e molti paesi arabi si erano dichiarati contrari a quella
mossa italiana e ciò dava fiato all’opposizione interna. Ma il
governo tenne ferma la sua linea e nel marzo 1982 fu spedita una
formazione navale a pattugliare lo stretto di Tiran in Mar
Rosso. Non eravamo soli, c’era una Forza Multinazionale che si
divideva i compiti nell’area che doveva fare da cuscino fra
Israele e l’Egitto. L’operazione andò bene e i rapporti
italo-egiziani, in particolare, migliorarono considerevolmente.
Iniziò allora una intensa cooperazione fra Roma e Il Cairo,
anche in campo militare.
La 1.a e la 2.a
spedizione in Libano avvennero anch’esse al di fuori
dell’ONU ma gli esperti di diritto internazionale hanno sempre
sostenuto che le due spedizioni erano legittime perché avevano
scopi umanitari e si fondavano sul consenso dello Stato
interessato.
L’ONU aveva condannato le stragi e il disordine del Libano ma si
era limitato a inviare qualche osservatore e a chiedere al
Segretario Generale delle Nazioni Unite di verificare se c’era
la possibilità di formare una forza di Caschi Blu. La situazione
era molto tesa anche perché in quelle settimane l’esercito
israeliano era entrato in Libano per affrontare le milizie di
Arafat.
Fu così che tre potenze (Usa, Francia e Italia) decisero da
sole, formarono una Forza Multinazionale, si procurarono il
consenso del governo libanese e entrarono a Beirut. Dicemmo: “La
gravità della situazione non poteva sopportare i tempi lunghi
dell’ONU“.
La 1.a spedizione in
Libano (avviata nell’agosto 1982) doveva sostanzialmente
servire a proteggere la ritirata delle truppe di Arafat
accerchiate in Libano dall’esercito israeliano. Anche
l’opposizione parlamentare fu d’accordo. Non fu facile per i
gruppi parlamentari dell’opposizione di sinistra dare un avallo
all’impegno italiano a fianco degli Stati Uniti. Poche settimane
prima quegli stessi gruppi avevano duramente attaccato in
Parlamento il governo americano per la sua politica in Medio
Oriente. Per stabilizzare l’area alcuni ambienti politici
italiani, interni ed esterni alla maggioranza di governo, si
erano saldati fra di loro e puntavano esclusivamente
sull’intervento dell’ONU. Su questo punto c’era una sintonia con
l’ex primo ministro Andreotti - allora esponente dell’Unione
interparlamentare europea - che non nascondeva le sue
preoccupazioni per un intervento militare italiano in uno
schieramento patrocinato dagli Stati Uniti e al di fuori dello
schema ONU. Ma la spedizione serviva anche a salvare Arafat e
questo bastava per acquietare molti animi.
La 2.a spedizione in
Libano (avviata nel settembre 1982) mirava a ristabilire
l’ordine a Beirut-Ovest dopo le stragi di Sabra e Chatila e
l’assassinio del presidente libanese e a sostenere e consolidare
il governo di Beirut passato in quei giorni nelle mani del
fratello del leader ucciso. Fu d’accordo anche l’opposizione ma
tale accordo durò poco. Già nell’autunno 1982 vennero espresse
varie riserve perché - si sosteneva - gli scopi della missione
stavano mutando: non più solo azione umanitaria ma anche
intervento politico. Ci fu chi definì “patetica” la spedizione e
mise in guardia contro i pericoli di una Italia interventista e
contro il rafforzamento del blocco industriale-militare che si
sospettava stesse dietro a tutta l’operazione. Per ricordare
qualcosa del clima di allora rammento l’apostrofe di un deputato
di opposizione: “Voi del governo cercate il morto in Libano per
risollevare lo spirito nazionalista del nostro popolo”.
Crisi
della spedizione
Per la nostra gente a Beirut non furono rose e fiori. Certo,
l’accoglienza della popolazione era buona e la simpatia
soprattutto dei poveri diavoli crebbe via via che il nostro
contingente dimostrava tutta la sua carica di umanità con
l’ospedale e le mense e quant’altro al servizio anche dei
locali. Ma la lotta politica in Libano era improntata ad una
violenza così estrema da scatenare ondate improvvise di odio e
sete di vendetta. Tutto era perciò eccezionalmente complicato.
Già nei primi giorni di ottobre 1982, a una settimana dal
nostro secondo sbarco, il governo libanese aveva dato il via ad
una vasta operazione di polizia. In pochi giorni erano state
arrestate circa 1500 persone di ogni cittadinanza e colore
politico, compresa gente profuga dalla Palestina. Ovviamente le
autorità di Beirut avevano cura di sottolineare che erano stati
sequestrati molti quantitativi di armi. Ci fu una certa emozione
nel nostro Parlamento. Il nostro governo esaminò le cose ed a me
venne dato l’incarico di riferire alle Camere. Prendemmo una
posizione ferma contro gli arresti e notificammo al presidente
Gemayel e al suo primo ministro Wazzan che non avremmo accettato
il protrarsi di una situazione contraria allo stato di diritto.
Ricordammo anche ai governanti libanesi che senza di noi
difficilmente sarebbero rimasti in sella. Lo stesso avviso venne
comunicato a Washington e a Parigi. In loco, i nostri si dettero
da fare per sapere tutto su quegli arresti: nominativi,
nazionalità, motivazioni delle accuse, luoghi e modalità della
detenzione ecc. Un terzo circa dei prigionieri fu liberato in
tempi brevi. Il quadro si rasserenò per un buon periodo.
Tutto precipiterà un anno dopo. La crisi, cominciata a fine
agosto 1983 con l’insurrezione delle milizie sciite contro il
governo libanese, si allargò nell’autunno successivo a seguito
della battaglia divampata fra le fazioni libanesi per il
controllo delle montagne del Chouf, quando divenne forte la
pressione armata della Siria, esplosero gli attentati contro le
forze americane e francesi, crebbe il malumore dell’URSS, e i
corpi di spedizione degli Stati Uniti e della Francia
cominciarono a prendere parte con artiglieria e aerei alla
guerra fra i vari partiti libanesi. Gli Stati Uniti si possono
capire. A Washington, potenza planetaria impegnata nella
ciclopica sfida fra Est e Ovest, non poteva piacere un aumento
dell’influenza siriana dietro la quale era facile intravedere il
grande nemico sovietico.
In conseguenza di questi fatti l’opposizione parlamentare
italiana si dichiarò contro la spedizione. A suo giudizio i
nostri soldati in Libano stavano perdendo la caratteristica di
forza di pace e si stavano trasformando in una forza di
intervento. Si arrivò così a dire che, se
la Forza Multinazionale era una forza di
dissuasione, tutta la missione italiana diventava
incostituzionale e doveva essere annullata (novembre 1983).
Anche il premier Craxi, assunto il governo del Paese nell’agosto
1983, ebbe un diverso approccio alla questione. Non vedeva più
il Libano nell‘ottica che aveva determinato la spedizione un
anno prima. Arrivò ad un diverbio con Mitterrand al vertice di
Venezia sugli indirizzi da dare alle operazioni in Libano, in
particolare a proposito delle rappresaglie da autorizzare contro
gli attentati terroristici dell’ottobre 1983. Andreotti, ora
ministro degli esteri di Craxi, su questo punto fu ancora più
severo con i francesi. Craxi era fautore di una indipendenza
energica dell’Italia in un quadro di amichevoli relazioni
dirette con gli Stati Uniti ma sosteneva con passione la
necessità di aperture sempre più risolute verso il Terzo Mondo e
verso alcune dirigenze dei paesi emergenti. Non a caso di lì a
poco divenne delegato speciale del Segretario Generale dell’ONU
per i problemi dello sviluppo. Quanto al Libano Craxi pensava
che l’Italia dovesse cessare di sostenere il governo libanese di
Gemayel (mentre questo era uno degli scopi della spedizione
stabiliti per accordo internazionale) e dovesse invece divenire
un mediatore equidistante fra le varie fazioni libanesi. Fra i
litiganti c’erano alcuni gruppi che aderivano all’Internazionale
socialista (Jumblatt, capo dei drusi, ad esempio, che
nell’ottobre 1983 venne ricevuto a Roma con tutti gli onori) e
Craxi ne teneva conto. Anche Pertini - che pure era stato in
Libano nella primavera 1983 ed era stato letteralmente acclamato
dalle nostre truppe - non era più solidale con l’iniziativa
militare e voleva il ritorno dei soldati. Su Jumblatt, tuttavia,
Pertini a differenza di Craxi dava un giudizio pessimo e non lo
ricevette al Quirinale. Craxi in ogni modo badò a legittimare
tutte le scelte precedenti e ribadì che l’intervento in Libano
era stato necessario, anzi lo si sarebbe dovuto realizzare
“prima”, quando la situazione non era ancora degenerata.
Nel febbraio 1984 Spadolini, ministro della difesa, annunciò il
ritiro degli italiani. Gli inglesi, senza tanti discorsi, se ne
erano già andati da un mese.
Pioveva a dirotto a Livorno e tutto era molto grigio (nonostante
la città imbandierata si rivelasse molto patriottica) quando i
nostri, scesi dalle navi, si schierarono sui moli e sfilarono
per le vie del centro. C’era Pertini a salutarli. E Spadolini
disse: “Presidente, te li ho riportati tutti a casa!”. A Livorno
non c’era il battaglione “San Marco” ma solo una sua
rappresentanza. I fanti di marina erano rimasti a Beirut per
garantire il completo ripiegamento del contingente italiano e
assicurarsi che nulla di nostro fosse abbandonato, salvo quanto
avevamo deciso di lasciare ordinatamente alla gente di Beirut
per usi civili. Il “San Marco” riprenderà il mare verso l’Italia
un mese più tardi con i cacciatorpediniere “Intrepido” e
“Audace” che per tutto quel tempo gli avevano protetto le spalle
incrociando al largo di Beirut. Con i fanti di marina ci saranno
alcuni paracadutisti della compagnia carabinieri, rimasti fino
all’ultimo in Libano.
Il
nostro schieramento
La 1.a spedizione in Libano, secondo gli accordi multinazionali
e il protocollo d’intesa col governo libanese, doveva essere
brevissima (un mese o anche meno) e fu infatti molto breve.
L’Italia inviò un battaglione bersaglieri di circa 600 uomini:
il “Governòlo” comandato dal tenente-colonnello Tosetti poi
generale.
La 2.a spedizione non aveva scadenze. USA, Francia e Italia
dovevano tenere a Beirut-Ovest una forza di 6/7 mila soldati
(2000/2500 uomini per ciascuno Stato). La Gran Bretagna, che
aderì più tardi alla Forza Multinazionale, inviò solo 100
soldati. Ad ogni contingente venne assegnata una zona da
presidiare, ma non alla Gran Bretagna. La Francia teneva il centro
della città dove erano acquartierate le forze cristiane, gli
Stati Uniti l’aeroporto anche per proteggere la vicina linea
occupata da Israele, l’Italia un’ampia zona dal mare fino
all’entroterra dove erano situati i campi palestinesi.
La struttura dei tre contingenti militari era simile: fanteria
leggera con protezione di forze corazzate e di artiglieria. In
mare, di fronte al Libano, si riunì una notevole forza navale
tripartita e a Cipro, nelle basi britanniche, stazionavano forze
aeree dei tre paesi. La nostra Marina fece un considerevole
sforzo mantenendo in quelle acque una formazione navale
consistente (2 incrociatori, 2 caccia d’altura, 4 fregate oltre
a navi di sostegno) al comando di uno sperimentato ammiraglio,
Giasone Piccioni. Per valutare il contributo italiano basta
ricordare che gli Stati Uniti, sorprendendo gli osservatori
internazionali per l’imponenza del loro schieramento navale,
avevano portato nel Mediterraneo orientale una flotta di venti
unità.
Lo schieramento italiano tuttavia si differenziò da quello
franco-americano. Noi scegliemmo di dare al nostro contingente
un carattere che non fosse quello tipico delle truppe di
occupazione e mantenemmo anche negli apprestamenti militari in
loco una linea di discrezione che puntava al dialogo. Tale linea
- che poteva apparire vulnerabile in caso di attacchi militari
di forze organizzate - si rivelò vincente. Nessun attentato
grave fu infatti compiuto contro gli italiani. Ci furono scontri
sporadici (che costarono la vita ad un fante di marina, Filippo
Montesi, e un’ottantina di feriti fra cui 6 ufficiali) ma nessun
assalto terroristico.
In Libano si avvicendarono fanti di marina, bersaglieri,
paracadutisti, cavalleggeri, carabinieri. E soldati della
logistica e della sanità con 100 ufficiali medici oltre ad un
reparto di 130 infermiere volontarie della Croce Rossa che si
comportarono magnificamente.
Sulla composizione del forze italiane, sul loro reclutamento
(leva o volontari) e armamento, sullo stato delle cose in Libano
e sull’evoluzione degli avvenimenti le Commissioni Esteri e
Difesa del Parlamento furono tempestivamente e costantemente
informate. Le truppe venivano avvicendate ogni quattro mesi, ma
molti ufficiali e sottufficiali rimasero in Libano per tutto il
tempo della spedizione (18 mesi). Lo sforzo finanziario fu alto.
Con gli avvicendamenti portammo e tenemmo in Libano oltre 8000
uomini con carriaggi, artiglierie, blindati, navi e aerei. Basta
pensare ad un piccolo dato: la paga del soldato semplice venne
fissata in 1600 dollari al mese.
Il comando del contingente fu affidato al colonnello Franco
Angioni (poi generale e in sèguito parlamentare). Nel gennaio
1983 a
Beirut, come ministro della difesa consegnai alle nostre truppe
la bandiera di combattimento che era il riconoscimento di un
impegno militare e non solo umanitario. Era la prima volta che
una bandiera di guerra veniva consegnata a soldati italiani
all’estero e credo che sia stata l’ultima. Quella bandiera è ora
conservata con gli onori militari al Vittoriano di Roma.
Alla direzione operativa dal quartiere generale della difesa nel
palazzo Baracchini, sede del ministro, provvedevano il generale
Pietro Giannattasio (più tardi Capo-Gabinetto del ministro e poi
parlamentare) e il colonnello Bonifazio Incisa di Camerana (poi
Capo di Stato Maggiore dell’Esercito). A questi due ufficiali si
deve in sostanza il successo complessivo della missione. Su di
loro sovrintendevano due Capi di Stato Maggiore (Cappuzzo per
l’Esercito e Monassi per la Marina) e il Capo-Gabinetto
del ministro, De Paolis, generale dell’Aeronautica. A Franco
Angioni si deve invece l’eccellente comportamento militare e
politico delle nostre truppe in loco e le buone relazioni che
l’Italia riuscì a stabilire con tutti in quel groviglio di
rivalità e contrasti che era il Libano. Anche i nostri servizi
di intelligence
dettero buona prova, eppure erano stati da poco sinistrati dallo
scandalo P2. Emersero in Libano alcune figure di comandanti e
ufficiali particolarmente capaci. Ricordo il capitano Corrado
Cantatore a cui fu affidato lo staff delle relazioni pubbliche e
si rivelò molto bravo. Mi colpì un capo naturale e carismatico,
il capitano di fregata Pierluigi Sambo, comandante dei nostri
fanti di marina, un ufficiale che era padre venerato per i suoi
uomini, guerriero risoluto e diplomatico pacificatore con la
gente del luogo.
Mezzi e
uomini. Carenze e conferme
La spedizione rivelò alcune carenze del nostro apparato
militare. Carenze di mezzi, non di uomini. La gente - volontari
e leva - si dimostrò ben preparata. La Difesa fra l’altro disponeva di alcuni reparti di
assalto che potevano ben figurare. Ne avevamo un buon numero,
2/3 mila uomini, un discreto patrimonio: il battaglione e poi
reggimento di marina “San Marco”, il reggimento lagunari
dell’esercito “Serenissima”, i battaglioni speciali dei
carabinieri e i commandos della marina. Senza contare la brigata
paracadutisti “Folgore”. Dove cascava l’asino erano i mezzi.
Pochi tecnologicamente competitivi, molti - in alcuni campi -
invecchiati o sorpassati. Avevo denunciato con franchezza questa
situazione alle Camere fin dalla primavera del 1980 e proposto
un programma di rilancio delle forze armate e di valorizzazione
degli uomini. Per il Libano l’arretratezza di alcuni mezzi in
qualche comparto si vide sùbito.
La Marina disponeva di buone unità ma aveva dei
problemi con le navi da trasporto e con le navi da sbarco. Fino
a quel momento il potere politico in Italia non aveva mai
previsto la necessità di trasferire lontano dalle nostre basi un
contingente considerevole di truppe. La Marina in pratica disponeva
soltanto di due unità trasporto (“Grado” e “Caorle”) residuati
americani vecchi di trent’anni e di due unita-sbarco (“Bafile” e
“Cavezzale”) anch’esse ex-USA risalenti addirittura alla seconda
guerra mondiale. Quanto ai mezzi anfibi per gli sbarchi delle
truppe sulle spiagge, erano pochi e non molto affidabili. Li
vidi all’opera durante una manovra navale nel canale di Otranto:
male in arnese. Difatti durante la traversata dall’Italia a
Beirut una delle navi trasporto andò in avaria rallentando tutta
la spedizione. Si sospettò un sabotaggio ma il Capo di Stato
Maggiore della Marina, ammiraglio Monassi, rispose sdegnato: “Ma
quale sabotaggio! Il solo sabotaggio è la vecchiaia!“. Al
momento dello sbarco a Beirut qualche mezzo anfibio si inceppò.
L’Aeronautica, che aveva i suoi problemi con gli aerei da
combattimento (i “Tornado” non erano ancora in linea), disponeva
di un numero limitato di aerei quadrimotori C130 e bimotori G222
per il trasporto truppe. Il trasferimento fu dunque
difficoltoso.
La Difesa capì la lezione. Dato che si doveva ormai
prevedere che il Paese si sarebbe anche in avvenire impegnato in
spedizioni militari a distanza (il Libano era a 2000 km dall’Italia), stabilimmo di dotare le
nostre forze armate di navi e aerei adatti, capaci cioè di
realizzare celermente una operazione lontana. Sul momento,
poiché non c’erano in ogni campo mezzi militari come si deve e
nella giusta quantità, decidemmo di usare i più moderni mezzi
civili di cui il Paese disponeva (navi e aerei). Così fu fatto
anche in Libano durante gli avvicendamenti delle truppe
successivi al primo sbarco. Furono requisiti nei porti e
aeroporti civili navi e aerei efficienti di vario tipo.
Qualcuno, anche nel mondo militare, storse la bocca ma questo,
del resto, ci insegnava l’illustre storia delle forze armate
britanniche. Non dimentichiamo Dunkerque!
Furono comunque progettate immediatamente 3 nuove e grandi navi
trasporto e sbarco (“San Giorgio”, San Marco” e “San Giusto”)
che entrarono in squadra poco dopo e fanno ancora buona figura.
In Libano i nostri soldati si comportarono bene. Agli iniziali
sorrisi ironici della stampa internazionale per il piumetto dei
bersaglieri e per il colore bianco da noi dato ai nostri mezzi
militari (“Gli italiani - scrisse un grande quotidiano di lingua
inglese - sono arrivati con i loro carrettini da gelato”)
subentrò un generale diffuso apprezzamento per la
professionalità e l’umanità della nostra gente. Fece il giro del
mondo la foto-notizia in cui si vedeva e si diceva che fra le
dune di Beirut un sergente dei paracadutisti italiani faceva
istruzione di combattimento ai
marines americani. E
quando la spedizione militare occidentale ebbe fine lo stesso
quotidiano di lingua inglese che aveva all’inizio trovato da
ridire su di noi arrivò a riconoscere che se la spedizione fosse
stata fatta soltanto dagli italiani e con i criteri di ingaggio
stabiliti dagli italiani il risultato finale sarebbe stato
migliore.
Entusiasmo iniziale e poi qualche timore
Il premier Spadolini (estate 1982) fu fermo sostenitore
della missione in Libano. Con me ebbe un momento di
entusiasmo. A Palazzo Chigi, una notte, a tu per tu, ascoltata
la mia relazione sui preparativi militari e sulle ricadute
politiche che la spedizione poteva avere, esclamò: “Ma questa è
una nuova Crimea! Io sono Cavour e tu sei Lamarmora!”. Rideva ma
si vedeva benissimo che era commosso.
Tuttavia Spadolini ebbe presto qualche timore. Era sorto il
problema se aumentare le nostre forze in Libano. A me ne aveva
parlato il presidente Gemayel che era interessato a rafforzare
l’autorità del suo governo nell’area di Beirut. Avevo consultato
Angioni durante una delle mie visite in Libano (gennaio-febbraio
1983) e il comandante non mi aveva nascosto che un
consolidamento del nostro contingente avrebbe facilitato il suo
compito. Pensavo di portare la nostra forza (2500 uomini) a
livello di una brigata (circa 5000 uomini) e Angioni intanto era
stato promosso da colonnello a generale di brigata. Ma, passate
le consegne di ministro della difesa a Spadolini (agosto 1983),
il nuovo ministro respinse la richiesta di Gemayel (settembre
1983). Quanto alle montagne del Chouf che di lì a poco
diventarono il nuovo casus
belli in Libano (ottobre 1983), il governo italiano era
stato invitato a estendere la protezione militare italiana in
qualche zona del Chouf. L’invito era venuto anche da Washington
dove il segretario alla difesa Caspar Weinberger - che avevo
conosciuto bene - stimava molto la spedizione italiana. Sul
Chouf i nostri c’erano già stati nel gelido inverno fra l’82 e
l’83 quando una incessante bufera di neve e grandi valanghe
avevano isolato tutta la montagna e cancellato ogni
infrastruttura. I nostri erano accorsi e avevano salvato dalla
disperazione molti villaggi dove la gente vinta del panico non
sapeva dove fuggire perché le bande armate delle fazioni
libanesi e l’esercito siriano bloccavano ogni movimento. Sul
Chouf, quando si parlò di portarvi una rete protettiva italiana,
si progettò di far intervenire un battaglione alpini, ma non
venne presa alcuna decisione finché tutto cadde perché il Chouf
- esploso nel più assoluto disordine - aveva cambiato il quadro
libanese.
Interventisti e euro-atlantici a confronto
Non so se sull’intiepidimento di Spadolini rispetto al tempo in
cui era primo ministro abbia influito la discussione che si era
allora accesa in ambienti influenti (università, centri-studi,
riviste). Si analizzava il “new
deal” e si contrapponevano i “neo-nazionalisti” ai
“neo-pragmatici”, cioè gli “interventisti” agli
“euro-atlantici”. Dei primi - si diceva - faceva parte il
ministro della difesa che aveva contribuito alla scelta degli
“euromissili” e alle due decisioni del Sinai e del Libano, ma si
aveva cura di sottolineare che il suo compagno di fede politica,
l’influentissimo leader Craxi, per alcuni aspetti del
“new deal” non era
classificabile sulla stessa lunghezza d’onda.
Per gli “interventisti” la spedizione in Libano era una prova,
un inizio. Per gli “euro-atlantici” era invece una eccezione e
tale doveva restare.
Quanto ai vertici militari non si poteva applicare lo stesso
schema. Gli Stati Maggiori infatti erano molto prudenti e
guardinghi, un po’ perché storicamente lo sono sempre stati e un
po’ perché erano consapevoli della debolezza del nostro apparato
militare. Tutto dipendeva dalla politica. Se Governo e
Parlamento avessero scelto di impegnare l’Italia con un disegno
di più alto profilo e di lungo respiro in una dimensione
mediterraneo-africana con margini di indipendenza rispetto alla
Alleanza atlantica, anche le forze armate andavano riviste,
riordinate e potenziate. La Marina aveva colto per prima
questo aspetto e chiedeva ad esempio, con più forza che nel
passato, la costruzione di portaerei.
La Marina aveva già sperimentato qualche
episodio di “braccio lungo”: una prima volta, alla fine degli
Anni Settanta, nel Mar Cinese meridionale per aiutare il popolo
vietnamita in fuga e una seconda volta nell’Oceano Indiano (nei
primissimi Anni Ottanta) per una esercitazione dinanzi alle
coste dello Yemen e della Somalia. Sostenitore esplicito del
“braccio lungo” si fece l’ammiraglio Marulli, capo di Stato
maggiore della Marina nel 1984. Va ricordato a questo riguardo
che nella primavera del 1983 era stata finalmente varata a
Monfalcone la prima portaerei italiana (la “Garibaldi”) e già se
ne stava progettando una seconda e più potente. La nave verrà
più tardi ed avrà un nome augurale “Andrea Doria”.
Lo Stato Maggiore dell’Aeronautica non era contrario ad un
maggior dinamismo della Difesa ma non credeva che le portaerei
fossero la risposta giusta. Difensore un po’ imbarazzato di
questa tesi fu, sempre nel 1984, il generale Cottone, capo di
Stato Maggiore dell’Aeronautica. Niente di nuovo, in verità.
L’opposizione dell’Aeronautica alle portaerei risaliva agli Anni
Venti, al tempo di Italo Balbo.
Lo Stato Maggiore dell’Esercito era molto legato alla strategia
NATO e quindi al breve e secondario fronte italiano delle Alpi
Giulie dove poteva bastare un esercito di Serie B sostenuto da
buone brigate alpine. Ma reagì bene alle novità strategiche e si
adoperò attivamente quando gli fu ordinato (1980-1981) di
cominciare a” diluire” verso il Sud le nostre forze dislocate
tutte a Nord-Est. Nell’autunno 1980 l’esercito aveva dato una
buona prova di efficienza col terremoto dell’Irpinia. In pochi
giorni due intere divisioni erano state trasferite dal Nord in
Campania per assistere la popolazione e aiutare la
ricostruzione. Gli addetti militari stranieri a Roma avevano
studiato la cosa e inviato ai rispettivi governi dispacci
riservati con giudizi lusinghieri sulla mobilità del nostro
esercito. Il presidente Pertini, andato sui luoghi del terremoto
nelle primissime ore del sisma, tornò a Roma indignato per i
ritardi nei soccorsi e fustigò mezzo mondo in un veemente
discorso televisivo, ma fece l’elogio dei soldati che aveva già
visto al lavoro. Fu allora che
la Difesa progettò una unità speciale di pronto
intervento (una brigata) valida per missioni all’estero e per
azioni di difesa e protezione civile. Venne trovata una parola
d’ordine, portata anche in Parlamento: “bazooka e pala”.
C’è da aggiungere che - nel quadro del “new
deal” e del confronto fra” interventisti” e “euro-atlantici”
- si inserì allora un dibattito sulla Bomba atomica. In alcuni
ambienti, sia politici (ricordo l’onorevole Bartolo Ciccardini,
sottosegretario alla Difesa) sia militari (ricordo l’ammiraglio
Giovanni Torrisi, capo di Stato Maggiore della Difesa), si
sostenne che sarebbe stato giusto dotare l’Italia di un’arma
nucleare propria. C’era da rammaricarsi - si diceva - della
fretta con la quale l’Italia aveva ratificato il trattato di
non-proliferazione nucleare; una Bomba atomica era poco costosa,
l‘Italia era in grado di produrla e uno stock di questi ordigni
nelle nostre basi avrebbe dato all’Italia un più rilevante rango
internazionale. Ma il dibattito fu soffocato dall’enorme clamore
che allora suscitavano due altre questioni nucleari: gli
euromissili e la
Bomba ai neutroni.
Per tornare a
Spadolini va detto che era molto atlantico e quando divenne
ministro della difesa (estate 1983) impresse sùbito uno stop
alle idee mediterraneo-africane. Vedi i suoi “Indirizzi di
politica militare” presentati alle Camere nel novembre 1983,
dove precisò che “l’Italia non deve far niente al di fuori del
collegamento euro-atlantico” e sottolineò che “è un errore
prefiggersi una vocazione mediterranea e mediatrice fra le
parti”. Ma le cose negli ambienti militari dovevano avere preso
un certo abbrivio con il
“new deal” e Spadolini, che probabilmente le registrò,
corresse l’anno dopo il suo stesso “stop”. Nell’autunno 1984,
presentando il bilancio di previsione della Difesa per il 1985,
tornò a citare qualche spunto del
“new deal”:
ruolo mediterraneo dell’Italia, margini di autonomia
del nostro Paese, pericoli di accerchiamento sovietico da Sud.
Poi su queste cose il dibattito è cessato ed è tornato il
silenzio.
Un
giudizio conclusivo sul Libano
Sui risultati politici complessivi dell’operazione della Forza
Multinazionale il giudizio resta in bilico. L’Occidente dimostrò
per la prima volta dopo la crisi di Suez del 1956 di essere
pronto ad intervenire militarmente nella polveriera del Medio
Oriente. La fine di una prassi remissiva di assenza - così fu
detto - era già di per sé un fatto politico rilevante, un fatto,
il solo fatto certo di tutta la vicenda.
La pacificazione del Libano però non ci fu. Nei primi tempi
sembrò che tale obiettivo fosse raggiungibile. Beirut Ovest,
presidiata dalla Forza Multinazionale, si era fatta calma e
vivibile. Non come Beirut Est che, risparmiata dalla guerra,
aveva continuato a fiorire come una tranquilla metropoli
turistica europea, ma - insomma - anche nella parte ovest della
capitale libanese la vita aveva ripreso un ritmo sopportabile.
Poi la situazione si deteriorò. La Siria, allora filosovietica,
lavorò perché l’operazione occidentale entrasse in crisi. Non si
può escludere un ruolo destabilizzante diretto dell’URSS che non
aveva interesse ad un successo occidentale nell’area.
Per
l’Italia è diverso. Era la prima volta che l’Italia metteva il
naso fuori dalla porta di casa dopo la seconda guerra mondiale,
la prima volta che usava la sua forza militare. E la prova fu
positiva. Non è stato più così, nel senso che non c’è stata più
una esperienza paragonabile al Libano. In Libano l’Italia era un
partner alla pari, una potenza protagonista. Non prestammo i
nostri uomini ad operazioni decise e comandate da altri.
Prendemmo l’iniziativa e tenemmo la testa. Il fatto stesso che
la Forza Multinazionale non avesse un
comandante unico ma solo un comitato di collegamento fra i tre
(e poi quattro) corpi di spedizione alleati e fra gli
ambasciatori dei paesi intervenuti sottolinea il carattere
paritetico della missione. Quel comitato di collegamento era
presieduto dal presidente libanese Gemayel, il che significa che
si trattava di una sede diplomatica e non di un comando
militare.
Nelle
successive missioni di pace siamo stati, come altri paesi
europei e no, un “vagone del convoglio” piuttosto che una
“locomotiva”. In Libano fummo una “locomotiva”. Non lo siamo
stati più. Non so se il Paese percepì bene la novità, forse sì,
in parte. So che per gli Stati Maggiori fu una iniezione di
speranza e di coraggio. Negli anni venuti dopo, quando siamo
stati chiamati in operazioni collettive di pace, la nostra gente
in armi è stata sempre apprezzata e buone figure di ufficiali
sul campo hanno reso un notevole servigio al Paese. E’ quel che
avviene oggi nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq ed è ciò che
è accaduto anche in un momento di guerra vera (la prima guerra
del Golfo) dove, sì, ci fu qualche stonatura ma da addebitare -
non alle nostre forze armate - bensì all’approccio a volte
troppo spettacolare ed emotivo del nostro mondo della
informazione. Il Libano tuttavia, per i suoi aspetti politici
soprattutto, rimane un esempio che non si è ripetuto.
Sono cose che restano, anche se il tempo passa e logora le
memorie. Al riguardo credo meriti un attimo di attenzione la
circostanza che, appena conclusa la missione, cadde sul Libano
un lungo e tenace silenzio; e il poco che si è raccontato lo si
è fatto avendo cura di non evidenziare gli aspetti più
propriamente politici e quindi più rilevanti di quella nostra
operazione militare. Un tributo pagato al cosiddetto
“politicamente corretto”. La spinta “interventista” non era più
di moda e ricordarne qualche passato passaggio non sembrava
opportuno a chi non amava la forza della verità. Solo nei tardi
Anni Novanta, quando si è ritrovato qua e là il coraggio di
riflettere sulla storia vera della Prima Repubblica, la
spedizione militare in Medio Oriente è tornata oggetto di
qualche approfondimento e nelle Università è accaduto che
qualche insegnante abbia intitolato al Libano qualche tesi di
laurea. Questo risveglio
di interesse politico-culturale sulla spedizione militare
dei primi Anni Ottanta appare quasi sempre collocato nella
cornice dei commenti al
“new deal” di quel tempo e della decisiva svolta politica
che si realizzò con gli euromissili. È un buon segno. In altri
paesi, diversi dal nostro - in particolare nei paesi occidentali
di lingua inglese - per loro fortuna, questa lunga parentesi di
oblio non c’è stata. E nei loro paesi, segnatamente nelle scuole
degli Stati Maggiori e nei centri studi strategici e militari,
il Libano è rimasto sempre un capitolo di virtù politiche,
militari e umane, sul quale si è avuto cura di tenere sempre
accese le luci della ribalta. Anche questa differenza fra noi e
gli altri, in fondo, può insegnare qualcosa. Aiuta a capire un
po‘ meglio la difficile storia e le contraddizioni del nostro
Paese.
Lelio
Lagorio
-
Luglio 2003.
L. Lagorio
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